Tito, magnifico arciere

TITO, MAGNIFICO ARCIERE

 

Questa mostra fotografica e audiovisiva dedicata alla figura artistica di Tito Amodei, nasce dall’incontro della fotografia di Fiorella Iacono con il progetto del docufilm (in collaborazione con Cristina Bergamini) sulla vita del pittore e performer Marco Fioramanti. Tito Amodei era stato intervistato perché conosceva da lungo tempo, e aveva capito in profondità, vorrei aggiungere, il lavoro artistico di Fioramanti. Ciò che dunque vediamo in questo evento che celebra l’opera di Tito Amodei deriva da circa due ore di lavoro sul campo nello studio di Tito (con il suo nome da religioso era riconosciuto da tutti sia come persona che come artista). Infatti una delle prime cose che si possono notare nella serie di fotografie scattate da Fiorella Iacono è un’azione in presa diretta di quei momenti e di come lo studio di Tito risulti anch’esso in azione, come un’officina che debba rendere materia, cosa viva, materica mai astratta, di un lavoro interiore, continuo, come inequivocabile, che si sta facendo. Perché una delle sensazioni che si provano nel vedere queste immagini, di lui Tito e delle sue opere, è come un suo incessante rapporto spirituale, ma, si potrebbe dire, metafisico, sia trasportato nell’involucro della materia, sostanza, cosa, dove l’elemento primordiale è in congiunzione dinamica con quello spirituale. E con spirituale non intendiamo sottolineare un certo fervore religioso (Tito era sacerdote passionista), ma la sicurezza che in lui ci fosse una ricerca (non solo legata alla fede religiosa) come innocente quanto schietta di trasmettere (con estrema disciplina degna di un arciere metafisico) questa passione nei materiali che ogni essere umano può vedere e quindi toccare. L’arte per Tito è un fatto assoluto che però non sopporta la magniloquenza, una certa solennità del dire attraverso l’esperienza dell’arte. Questo fatto assoluto (davvero deistico) nel suo percorso artistico si definisce nell’usare essenze comuni, materiali poveri come se fossero già per sempre stati in natura, anzi prelevati dalla natura stessa. Il lavoro sui materiali primari di Tito rappresentano un fondamento compassionevole del suo essere umano a indicare una certa creaturalità di tutte le cose. Nelle opere di Tito non c’è grazia immateriale se non c’è un qualcosa di benefico che possiamo estrarre dalla materia (una felicità materiale); l’arte per Tito è stata la sua teologia e il suo esprimibile assoluto. Niente di mistico astratto in Tito ma semmai di una tensione mistica che si fa oggetto concreto. La percezione di un suo sentimento lavorato, per raccogliere le sue parole, «lavorato in maniera primordiale, come farebbe un contadino con l’accetta».

Ma questa sua umiltà non deve trarre in inganno. La sua umiltà umana verso ciò che è l’arte e ciò che l’arte attraverso i suoi oggetti può dire nell’usare materiali primari come il legno e utilizzando metalli antichi come il bronzo, non fa di Tito un artista costruito dentro a una sua atmosfera culturale pressoché naïf. Stare appartato nel proprio studio (si coglie dalle foto della Iacono come un ampio spazio vissuto, pieno d’oggetti, Iacono ha una sua action photo che sa cogliere in immagine gli istanti di valore di uno spazio esperito dal tempo), vuole dire stare a stretto contatto a una personale essenza artistica, e farlo senza cedimenti, in una sorta di stoicismo interiore. Ecco di Tito e del suo lavoro artistico (e qui il sostantivo lavoro va sempre declinato in una dimensione legata al fare una cosa, oggetto che parli agli altri: quasi che l’arte, in ultima analisi, possa contenere nel suo nucleo prescelto, elettivo, una reale esperienza democratica alla portata di tutti) si può dire che non era un artista come un intellettuale isolato. Anzi Tito era un artista primordialmente eclettico che si serviva di tante forme per esprimersi: scultura, pittura, incisioni, acqueforti, serigrafie, e, nel suo lungo apprendistato artistico, certe avanguardie artistiche di certo non gli sono state estranee o non note. Per fare un esempio: le forme stilizzate, la figura dell’uovo di Brancusi, in Tito si rileva la figurazione dell’uovo e del seme come archetipo, forme che in loro divengono elegantemente concrete, tattili, in una percezione di trasformazione dell’evento umano. Da queste foto che ci parlano del lavoro di Tito (e la proiezione del filmato-documento), si nota infatti una certa eleganza dello stile delle opere, un suo indubbio senso estetico nel saperle plasmare in una sorta di armonioso, e chissà se nell’utopia di una perfetta illusione, adempimento poetico. Perché in Tito la materia c’è in tutta la sua essenza di materia viva (in elevata concentrazione). E se Tito non è un artista isolato ma che ha sentito altri compagni di strada attraversare la sua strada, il lavoro di Tito può essere messo in relazione a una certa Arte povera, forse il paragone in sé non è del tutto azzardato, in particolare al lavoro su legno di Giuseppe Penone (anche per una ricerca di scrittura molto interessante che Penone fa sul proprio lavoro). Ma ciò che Tito fa, rispetto all’arte povera nata sul richiamo di altra arte che già si stava facendo nell’emblematico esempio materico e concettuale di intima unità di Joseph Beuys, è di non fare gruppo (ciò, intendiamoci, non porta altro valore alla sua capacità artistica), e di stare nella sua arte senza chiedere nient’altro che essere quello che lui era: un artista primordiale delle cose che possono essere eterne.

Andrea Gibellini